Kuch, foto di Nicole Beau
la voce di Rudolf Dreikurs
”I figli ci provocano e noi siamo impotenti: chiediamo, tentiamo di persuadere, lusinghiamo, puniamo, offriamo ricompense, nel tentativo di convincerli a obbedire a un ordine qualsiasi.
Una nonna dichiarava disperata: " Ai bambini non importa più niente di niente!".
Questo comportamento di insubordinazione e di sfida è diventato tanto comune da essere ritenuto normale: "I bambini son fatti così".
A scuola, molti di loro rifiutano di assumersi le responsabilità relative allo studio: gli insegnanti chiedono ai genitori di controllare che gli scolari eseguano i compiti di casa, ma non sanno indicare come si possa farlo senza fatica e lotta.
Troppo spesso leggiamo di bambini nei guai; i comportamenti da delinquenti potenziali compaiono in età via via minori. I magistrati si raccomandano che i genitori tolgano i loro figli dalle strade la sera, ma non riescono a dire in che modo ottenerlo.
Ricerche a livello nazionale sulla delinquenza minorile producono volumi e volumi di incartamenti ma pochi consigli su possibili soluzioni.
Molti genitori sono sempre più preoccupati e sconcertati: avevano sperato di allevare bambini felici, ben educati, li vedono invece insoddisfatti, annoiati, infelici, sprezzanti e insolenti.
In tutta la nazione pediatri e psichiatri denunciano un aumento allarmante di gravi turbe affettive nei bambini...
Queste parole le scriveva nel 1964 Rudolf Dreikurs nel suo ottimo libro del 1964 Children: The Challenge (I bambini, una sfida), pubblicato in prima edizione italiana da Ferro, Milano 1969 (oggi forse reperibile in nuove edizioni).
Sono trascorsi cinquant'anni e la situazione non è certo migliorata, un quadro che somiglia molto da vicino alla situazione attuale italiana (europea!) di questi anni.
Dreikurs era uno psichiatra allievo del grande Alfred Adler, a sua volta allievo e collaboratore di Freud. Adler se ne era distaccato elaborando una sua “psicologia dinamica, individuale. era convinto che fosse possibile far scuola in modo diverso e che, alla base di tutto, dovesse esserci la costruzione di relazioni positive.
Dreikurs cercò in molti modi e con grande concretezza di realizzare la grande portata di queste ricerche. Sosteneva, in sintonia con Adler, che la vita in famiglia come a scuola dovrebbe basarsi sulla cooperazione e sul rispetto reciproco, senza esercitare alcuna forma di autoritarismo, un percorso a suo avviso fondamentale per un'educazione democratica, altrimenti compromessa da autoritarismo e permissività.
Autoritarismo come mancanza di ascolto, fiducia e condivisione nelle scelte e uso di punizioni; permissività con l'abitudine di lasciare a bambini e ragazzi la decisione su qualsiasi cosa, senza allenarli al corrispettivo senso di responsabilità.
Quindi : in primo luogo realizzare una scuola diversa, basata sulla libertà di scegliere e sul fare cose interessanti, non imposte.
Secondo punto: lavorare insieme e insieme prendere ogni decisione relativa al funzionamento del gruppo.
Terzo punto: stabilire buone relazioni tra adulto e allievi come scuola indiretta alle relazioni tra loro.
Quarto punto assenza di giudizi continui, di incoraggiamenti alla competizione a partire dalle espressioni orali. L'adulto come guida e non come controllore sadico dell'operato dei ragazzi. Problemi vecchi e ben stabili nel tempo., come si vede.
I criteri proposti da Dreikurs non suonano certo nuovi per chi segua la proposta Montessori, perfettamente adatti per la scuola: dall'infanzia alla primaria e successive classi.
Quanto ai compiti a casa nelle nostre scuole, la soluzione l'abbiamo adottata da sempre eliminandoli del tutto: il lavoro si fa interamente a scuola insieme ai compagni e con la guida del maestro.
Data la difficoltà di reperire questo testo di grandissima efficacia trarremo via via da esso esempi e soluzioni concrete che possono aiutare famiglie e maestri.
Rudolf Dreikurs era nato a Vienna nel febbraio del 1897 laureandosi in medicina e psichiatria. Divenuto stretto collaboratore di Adler, a lungo lavorò con lui sui problemi dell'infanzia. Nel 1937 si trasferì negli Stati Uniti insegnando nella Chicago Medical School e dirigendo l'istituto ”Alfred Adler”. Morì nel 1972 negli Stati Uniti.
Oltre “I bambini: una sfida” ha scritto:
“Il matrimonio: una sfida”, editore G. Nerbini, 1947
“Psicologia in classe – Manuale pratico per i maestri” Giunti- Barbera , 1961
Una nonna dichiarava disperata: " Ai bambini non importa più niente di niente!".
Questo comportamento di insubordinazione e di sfida è diventato tanto comune da essere ritenuto normale: "I bambini son fatti così".
A scuola, molti di loro rifiutano di assumersi le responsabilità relative allo studio: gli insegnanti chiedono ai genitori di controllare che gli scolari eseguano i compiti di casa, ma non sanno indicare come si possa farlo senza fatica e lotta.
Troppo spesso leggiamo di bambini nei guai; i comportamenti da delinquenti potenziali compaiono in età via via minori. I magistrati si raccomandano che i genitori tolgano i loro figli dalle strade la sera, ma non riescono a dire in che modo ottenerlo.
Ricerche a livello nazionale sulla delinquenza minorile producono volumi e volumi di incartamenti ma pochi consigli su possibili soluzioni.
Molti genitori sono sempre più preoccupati e sconcertati: avevano sperato di allevare bambini felici, ben educati, li vedono invece insoddisfatti, annoiati, infelici, sprezzanti e insolenti.
In tutta la nazione pediatri e psichiatri denunciano un aumento allarmante di gravi turbe affettive nei bambini...
Queste parole le scriveva nel 1964 Rudolf Dreikurs nel suo ottimo libro del 1964 Children: The Challenge (I bambini, una sfida), pubblicato in prima edizione italiana da Ferro, Milano 1969 (oggi forse reperibile in nuove edizioni).
Sono trascorsi cinquant'anni e la situazione non è certo migliorata, un quadro che somiglia molto da vicino alla situazione attuale italiana (europea!) di questi anni.
Dreikurs era uno psichiatra allievo del grande Alfred Adler, a sua volta allievo e collaboratore di Freud. Adler se ne era distaccato elaborando una sua “psicologia dinamica, individuale. era convinto che fosse possibile far scuola in modo diverso e che, alla base di tutto, dovesse esserci la costruzione di relazioni positive.
Dreikurs cercò in molti modi e con grande concretezza di realizzare la grande portata di queste ricerche. Sosteneva, in sintonia con Adler, che la vita in famiglia come a scuola dovrebbe basarsi sulla cooperazione e sul rispetto reciproco, senza esercitare alcuna forma di autoritarismo, un percorso a suo avviso fondamentale per un'educazione democratica, altrimenti compromessa da autoritarismo e permissività.
Autoritarismo come mancanza di ascolto, fiducia e condivisione nelle scelte e uso di punizioni; permissività con l'abitudine di lasciare a bambini e ragazzi la decisione su qualsiasi cosa, senza allenarli al corrispettivo senso di responsabilità.
Quindi : in primo luogo realizzare una scuola diversa, basata sulla libertà di scegliere e sul fare cose interessanti, non imposte.
Secondo punto: lavorare insieme e insieme prendere ogni decisione relativa al funzionamento del gruppo.
Terzo punto: stabilire buone relazioni tra adulto e allievi come scuola indiretta alle relazioni tra loro.
Quarto punto assenza di giudizi continui, di incoraggiamenti alla competizione a partire dalle espressioni orali. L'adulto come guida e non come controllore sadico dell'operato dei ragazzi. Problemi vecchi e ben stabili nel tempo., come si vede.
I criteri proposti da Dreikurs non suonano certo nuovi per chi segua la proposta Montessori, perfettamente adatti per la scuola: dall'infanzia alla primaria e successive classi.
Quanto ai compiti a casa nelle nostre scuole, la soluzione l'abbiamo adottata da sempre eliminandoli del tutto: il lavoro si fa interamente a scuola insieme ai compagni e con la guida del maestro.
Data la difficoltà di reperire questo testo di grandissima efficacia trarremo via via da esso esempi e soluzioni concrete che possono aiutare famiglie e maestri.
Rudolf Dreikurs era nato a Vienna nel febbraio del 1897 laureandosi in medicina e psichiatria. Divenuto stretto collaboratore di Adler, a lungo lavorò con lui sui problemi dell'infanzia. Nel 1937 si trasferì negli Stati Uniti insegnando nella Chicago Medical School e dirigendo l'istituto ”Alfred Adler”. Morì nel 1972 negli Stati Uniti.
Oltre “I bambini: una sfida” ha scritto:
“Il matrimonio: una sfida”, editore G. Nerbini, 1947
“Psicologia in classe – Manuale pratico per i maestri” Giunti- Barbera , 1961
Libertà e regole
Un padre, angosciato per il figlio adolescente in preda alla droga, dice: “Abbiamo fatto tutto per lui, gli abbiamo dato tutto, perché è andato a cercare questo veleno?”
Difficile dare risposte – comunque tardive – a una domanda tanto dolorosa, ma c'è un frammento su cui riflettere: “gli abbiamo dato tutto”.
Tutto, di che cosa ? Come? Quanto? Quando?
Nella inquieta situazione attuale, avviata da almeno una decina d'anni o poco più, il “dare tutto” è sembrata a molti genitori la via migliore per evitare conflitti con i figli: libertà sempre più ampia, la chiave di casa al collo, “ fa'-come-vuoi”, e “cavatela-da-solo” in abbondanza.
Così nei primi anni il bambino viene “allenato” a ottenere tutto con strepiti, rifiuti e ricatti “purché mangi” o “purché dorma” e così via. A poco a poco eccoli i piccoli tiranni senza freni.
Libertà senza freni nessuno se la può permettere: data così, come un sacco rovesciato in mezzo alla stanza, non ha nulla di formativo. Non si libera nulla e il bambino disorientato dall'assenza di limiti alternata a rimproveri e punizioni, diventa un adolescente che crede di poter dominare tutto, compreso l'assaggio di droghe progressive nell'illusione di “Smetto quando voglio”, finché arriva a superare il confine del non-ritorno.
Allora vogliamo o no cominciare da quando sono piccoli ?
Si tratta di segnare il sentiero su cui camminare, senza violenze, né prediche, ma dando tante indicazioni indirette.
Alla sua altezza, già a due o tre anni, mettiamo un porta-abiti all'ingresso, un gancio in bagno dove appendere le sue cose; un posto per le scarpe o per il triciclo; un luogo ordinato per i libri e un altro per i giochi (anziché un baule dove tutto è alla rinfusa). Sono segnali preziosi per un piccolino nell'età in cui è sensibile all'ordine degli oggetti e dei luoghi. Un ambiente ordinato cui il genitore può far riferimento: “Quando ti sei asciugato le mani, il piccolo asciugamano lo appendi qui”.
Non bisogna aver paura di dire No: “Questo non si può fare”; “Questo non si tocca”; “La sciarpa ricordi dove va messa?”...
Ordine anche come regolarità nei ritmi e nelle abitudini quotidiane: l'ora del risveglio (prevedendo un tempo calmo), dei pasti, merenda inclusa, oltre i quali non si mangia, dicendo gentilmente No e non permettendo ai piccoli l'accesso al frigo o all'armadio (mettendo i biscotti in alto), senza però dargli mai aiuti superflui...Tutto questo richiede paziente coerenza per noi e tra gli altri di cassa: se vi avremo dedicato riflessione e organizzazione pratica, senza mai essere ossessivi e rigidi, avremo già posto una base importante alla costruzione dell'ordine interno e a un senso di indipendenza responsabile.
Quando il figlio cresce, il desiderio di fare a modo proprio aumenta in proporzione: Cominciano segnali precisi di voglia di sottrarsi a confini pur assimilati da tempo: la felpa buttata qua e là, cose che si rompono per poca attenzione, trascurare impegni assunti. Come a scuola, anche a casa ogni bambino dopo i quattro, cinque anni può partecipare alle attività della famiglia: dar da mangiare al cane ogni sera, controllare se c'è la carta igienica in bagno, aiutare nella preparazione della tavola o della merenda, controllare se le scarpe o i libri sono in ordine.
Piccole proposte a rotazione, decise insieme e da eseguire con cura è già un buon inizio: il bambino si sente rispettato e insieme protetto.
Difficile dare risposte – comunque tardive – a una domanda tanto dolorosa, ma c'è un frammento su cui riflettere: “gli abbiamo dato tutto”.
Tutto, di che cosa ? Come? Quanto? Quando?
Nella inquieta situazione attuale, avviata da almeno una decina d'anni o poco più, il “dare tutto” è sembrata a molti genitori la via migliore per evitare conflitti con i figli: libertà sempre più ampia, la chiave di casa al collo, “ fa'-come-vuoi”, e “cavatela-da-solo” in abbondanza.
Così nei primi anni il bambino viene “allenato” a ottenere tutto con strepiti, rifiuti e ricatti “purché mangi” o “purché dorma” e così via. A poco a poco eccoli i piccoli tiranni senza freni.
Libertà senza freni nessuno se la può permettere: data così, come un sacco rovesciato in mezzo alla stanza, non ha nulla di formativo. Non si libera nulla e il bambino disorientato dall'assenza di limiti alternata a rimproveri e punizioni, diventa un adolescente che crede di poter dominare tutto, compreso l'assaggio di droghe progressive nell'illusione di “Smetto quando voglio”, finché arriva a superare il confine del non-ritorno.
Allora vogliamo o no cominciare da quando sono piccoli ?
Si tratta di segnare il sentiero su cui camminare, senza violenze, né prediche, ma dando tante indicazioni indirette.
Alla sua altezza, già a due o tre anni, mettiamo un porta-abiti all'ingresso, un gancio in bagno dove appendere le sue cose; un posto per le scarpe o per il triciclo; un luogo ordinato per i libri e un altro per i giochi (anziché un baule dove tutto è alla rinfusa). Sono segnali preziosi per un piccolino nell'età in cui è sensibile all'ordine degli oggetti e dei luoghi. Un ambiente ordinato cui il genitore può far riferimento: “Quando ti sei asciugato le mani, il piccolo asciugamano lo appendi qui”.
Non bisogna aver paura di dire No: “Questo non si può fare”; “Questo non si tocca”; “La sciarpa ricordi dove va messa?”...
Ordine anche come regolarità nei ritmi e nelle abitudini quotidiane: l'ora del risveglio (prevedendo un tempo calmo), dei pasti, merenda inclusa, oltre i quali non si mangia, dicendo gentilmente No e non permettendo ai piccoli l'accesso al frigo o all'armadio (mettendo i biscotti in alto), senza però dargli mai aiuti superflui...Tutto questo richiede paziente coerenza per noi e tra gli altri di cassa: se vi avremo dedicato riflessione e organizzazione pratica, senza mai essere ossessivi e rigidi, avremo già posto una base importante alla costruzione dell'ordine interno e a un senso di indipendenza responsabile.
Quando il figlio cresce, il desiderio di fare a modo proprio aumenta in proporzione: Cominciano segnali precisi di voglia di sottrarsi a confini pur assimilati da tempo: la felpa buttata qua e là, cose che si rompono per poca attenzione, trascurare impegni assunti. Come a scuola, anche a casa ogni bambino dopo i quattro, cinque anni può partecipare alle attività della famiglia: dar da mangiare al cane ogni sera, controllare se c'è la carta igienica in bagno, aiutare nella preparazione della tavola o della merenda, controllare se le scarpe o i libri sono in ordine.
Piccole proposte a rotazione, decise insieme e da eseguire con cura è già un buon inizio: il bambino si sente rispettato e insieme protetto.
Alcuni criteri di Scelta
Scegliere consapevolmente il luogo - pubblico o privato che sia - rispondente alle esigenze di crescita del proprio figlio o figlia, è misura saggia di ogni genitore: i criteri devono essere quelli che si avvicinano il più possibile a forme di riguardo, di garbo, ma anche di ordine e di giusti confini, attenti a sé e agli altri.
Non è tanto un'educazione formale che va cercata in una istituzione educativa, quanto un luogo equilibrato, vigile sullo sviluppo di ogni bambino, nel rispetto delle differenze e delle possibilità personali.
Non è escluso che a volte si resti delusi su taluni particolari:la cosa migliore è parlarne con chi di dovere, ma mai in presenza del bambino che non deve perdere la fiducia e il rispetto nei confronti del proprio educatore.
Per scegliere un Nido di qualità: che cosa osservare?
Per una Casa dei Bambini di qualità: che cosa osservare?
Per una Primaria Montessori di qualità: che cosa osservare?
Non è tanto un'educazione formale che va cercata in una istituzione educativa, quanto un luogo equilibrato, vigile sullo sviluppo di ogni bambino, nel rispetto delle differenze e delle possibilità personali.
Non è escluso che a volte si resti delusi su taluni particolari:la cosa migliore è parlarne con chi di dovere, ma mai in presenza del bambino che non deve perdere la fiducia e il rispetto nei confronti del proprio educatore.
Per scegliere un Nido di qualità: che cosa osservare?
- L'esterno appare ordinato, vissuto dai bambini?
- È facilmente concessa una visita?
- Si danno indicazioni su come entrare?
- È previsto un ambientamento sui tempi del bambino o si parla di inserimento breve? ( si ambientano una pianta delicata o un cucciolo, si inserisce un corpo estraneo in un altro: le parole non sono casuali)
- C'è molto rumore: voci alte degli adulti e grida dei bambini?
- Le educatrici sono vestite in modo semplice, ordinato o in jeans e tacchi alti?
- Come si presenta il personale di appoggio (ciabatte,voci alte...)
- I giochi dei bambini sono disposti alla loro altezza, variati e curati o in alto, con abbondanza di palle e pupazzi/peluche?
- Come è organizzato il pasto dei piccoli (seduti con sedie basse a loro misura o infilati in seggiolini sospesi?)
- Il bambino farebbe parte di un piccolo gruppo di cui è responsabile una sola educatrice o starebbe con più più bambini e più persone delle quali è prevista una rotazione settimanale o mensile?
- In quali modi è previsto un contatto frequente con i genitori?
Per una Casa dei Bambini di qualità: che cosa osservare?
- L'esterno appare ordinato, vissuto dai bambini?
- È facilmente concessa una visita?
- L'ambiente appare ordinato, ma funzionale, tale da favorire i movimenti attivi dei bambini o piuttosto il loro star seduti?
- I tavoli sono singoli o a due posti al massimo per favorire la concentrazione oppure riuniti a tavoloni?
- Il lavoro ai tavoli appare ordinato o c'è disordine di oggetti matite o altro?
- C'è ricchezza di materiali a disposizione per la “libera scelta” dei bambini o è la maestra che guida il lavoro?
- Quanto spazio hanno i materiali sensoriali e quanto le attività di tipo costruttivo e creativo, il disegno in particolare e quello, essenziale e libero, con gli incastri?
- Sono previsti libri in una zona appositamente organizzata? E le attività con l'acqua - la”vita pratica” -sono nella sala di lavoro o fuori di essa?
- La maestra sta seduta e gli allievi fanno la fila per avere il suo aiuto o, al contrario, i bambini restano seduti e lei gira fra i tavoli per aiutare dove è necessario?
- Al singolo bambino la maestra si rivolge individualmente e da vicino o gli parla da lontano?
- Come sono i rapporti tra i bambini di aiuto spontaneo o di competizione e di litigio più o meno evidente?
- Quanto la scuola favorisce gli incontri tra genitori e tra questi e la maestra?
Per una Primaria Montessori di qualità: che cosa osservare?
- L'esterno appare ordinato, vissuto dai ragazzini?
- È facilmente concessa una visita?
- L'ambiente appare ordinato, funzionale, tale da favorire i movimenti attivi dei ragazzini o piuttosto il loro star seduti?
- I tavoli sono singoli o o a due posti al massimo per favorire la concentrazione oppure riuniti a grandi tavoloni?
- Il lavoro ai tavoli appare ordinato o c'è disordine di matite fogli libri?
- C'è ricchezza di materiali a disposizione per la “libera scelta” dei ragazzini o è la maestra che guida il lavoro?
- È presente una piccola biblioteca con libri di lettura e astri di studio?
- La maestra sta seduta e gli allievi fanno la fila per avere il suo aiuto o, al contrario, i ragazzini restano seduti e lei gira fra i tavoli per aiutare dove è necessario?
- Al singolo ragazzino si rivolge individualmente e da vicino o gli parla da lontano?
- Sono previsti incontri di grande gruppo? Quando, come e perché avvengono?
- È previsto un calendario di responsabilità di cura degli ambienti, affidato ai ragazzini ? Se sì, con quali modalità viene stabilito?
- In una Scuola Montessori non si danni voti, né giudizi, né compiti a casa, nemmeno per le vacanze: che cosa prevede la scuola per tenere informati i genitori circa la crescita del figlio o figlia, delle sue abilità o eventuali difficoltà?
Attenti all'uso esagerato e continuo di cellulari e computer
L'allarme è arrivato dal Giappone e si chiama Sindrome di Hikikomori, il preoccupante segnale dell'isolamento, del chiudersi all'ambiente di casa, dei compagni, perfino al cibo, fino a un totale distacco dalla realtà.
Cominciato in pieno negli anni Ottanta, si è verificato negli Stati Uniti e poi in Europa. In Italia pare che già 100.000 ragazzini e ragazzi siano ridotti in questo stato di totale chiusura, senza limiti di tempo nella giornata.
I figli spesso troppo soli, afflitti da compiti noiosi e scioccamente ripetitivi, con interessi ridotti al minimo, ricorrono facilmente a questo oggetto che vedono di continuo nelle mani degli adulti, per fotografare di tutto, spesso per dirsi cose inutili.
Non lasciamoli soli, stiamo con loro per parlare, per camminare insieme in qualche strada quieta – se ne trovano anche nelle città più affollate – meglio ancora nel verde, farlo incontrare con qualche amico, organizzare cose interessanti da fare, suscitare l'amore per la lettura leggendo molto per lui (o lei) qualche libro appassionante.
Il Hikikomori attecchisce sul vuoto delle relazioni e sulla noia.
Altro uso possibile dei cellulari:
La signora R. – che lavorando in un bar è fuori quasi tutto il giorno – è contenta che suo figlio, che di solito protesta per i compiti, tanti o pochi che siano, finalmente si sia deciso a farli. Anche le maestre sono contente. Finché un giorno il nonno lo scopre mentre scrive lentamente, copiando dal cellulare un testo che un compagno gli ha inviato. Fatta la legge, trovato l'inganno, si dice. Gli adulti lo fanno molto spesso, ma da un ragazzino non te l'ha aspetti. La madre gli sequestra il cellulare, ma lui che altro inventerà? La signora R. inutilmente si dispera…
Cominciato in pieno negli anni Ottanta, si è verificato negli Stati Uniti e poi in Europa. In Italia pare che già 100.000 ragazzini e ragazzi siano ridotti in questo stato di totale chiusura, senza limiti di tempo nella giornata.
I figli spesso troppo soli, afflitti da compiti noiosi e scioccamente ripetitivi, con interessi ridotti al minimo, ricorrono facilmente a questo oggetto che vedono di continuo nelle mani degli adulti, per fotografare di tutto, spesso per dirsi cose inutili.
Non lasciamoli soli, stiamo con loro per parlare, per camminare insieme in qualche strada quieta – se ne trovano anche nelle città più affollate – meglio ancora nel verde, farlo incontrare con qualche amico, organizzare cose interessanti da fare, suscitare l'amore per la lettura leggendo molto per lui (o lei) qualche libro appassionante.
Il Hikikomori attecchisce sul vuoto delle relazioni e sulla noia.
Altro uso possibile dei cellulari:
La signora R. – che lavorando in un bar è fuori quasi tutto il giorno – è contenta che suo figlio, che di solito protesta per i compiti, tanti o pochi che siano, finalmente si sia deciso a farli. Anche le maestre sono contente. Finché un giorno il nonno lo scopre mentre scrive lentamente, copiando dal cellulare un testo che un compagno gli ha inviato. Fatta la legge, trovato l'inganno, si dice. Gli adulti lo fanno molto spesso, ma da un ragazzino non te l'ha aspetti. La madre gli sequestra il cellulare, ma lui che altro inventerà? La signora R. inutilmente si dispera…
Silvia Vegetti Finzi
Una bambina senza stella
Nel cuore segreto dei bambini
Con questo titolo è uscito presso Rizzoli un nuovo libro – delicato, autentico nella sua testimonianza – che la sua Autrice ha voluto farci conoscere. Ne diamo qui alcuni stralci.
E’ innanzitutto ai genitori – scrive l’Autrice nella parte introduttiva – che questo libro si rivolge nel tentativo di affinare una sensibilità appannata dalla paura del presente e dall’ansia del futuro.
Molte, troppe preoccupazioni li inducono a proteggere, incentivare e promuovere i figli sino a manipolarli e, talora sostituirli. Giustamente Maria Montessori fa dire al bambino “ Aiutami a fare da solo”.
Nei giovani genitori, che spesso incontrano per la prima volta un neonato quando prendono tra le braccia il proprio, appare indebolita la predisposizione a cogliere le sue sensazioni, a sintonizzarsi con i suoi stati d’animo, a decifrarne i pensieri impliciti.
Possono però recuperare questa facoltà riattivando i loro residui d’infanzia. Il bambino che permane in noi ci aiuta a comprendere quelli che ci stanno accanto e a raggiungerli là dove si trovano: nei meandri della fantasia, nell’intermittenza delle emozioni. Ed è proprio verso quell’“altrove” intimo e segreto che conduce il filo rosso dei vissuti della protagonista, una bambina che ha ricavato, dal trauma dell’abbandono, uno sguardo prospettico sulla realtà e riflessivo su di sé. Si tratta certo di una vicenda personale ma, in quanto tutta la vita si configura come un seguito di abbandoni, è possibile riconoscere, nei suoi sentimenti e nelle sue reazioni, quelle di tutti.
Il libro raccoglie frammenti di memorie d’infanzia di una “bambina senza stella” nel senso che non è stata marchiata con la stella giudaica come è accaduto in altri Paesi, ma anche nel senso che, nascendo in corrispondenza all’applicazione delle leggi razziali ed essendo di padre ebreo, è stata abbandonata dapprima a una balia e poi accolta da lontani parenti del padre che vivevano in una paesino del mantovano, Villimpenta.
Nel 1943, quando la madre, mai conosciuta, ritorna dall’Africa Orientale dove la famiglia in fuga si era trasferita, la bambina viene bruscamente portata a vivere in città, nella casa di altri zii. Si passa così da una infanzia dolcissima (Il senso di esserci) al trauma della separazione (La vita interrotta) e alla elaborazione del lutto (il rimpianto).
Ciascun frammento di memoria è seguito da un commento esplicativo che orienta il lettore verso un sguardo più attento circa le emozioni che la bambina prova e la loro evoluzione, mettendo in evidenza le misteriose risorse ogni individuo possiede. Contrariamente a molti saggi di psicologia, che descrivono un’infanzia generica e astratta, oppure fanno riferimento a casi patologici, i pensieri e i sentimenti della protagonista si ritrovano nell’esistenza di tutti.
A uno sfondo epocale tragico – la seconda guerra mondiale – e a una situazione familiare tormentata, contrassegnata dalla lontananza, dall’indifferenza e dal disamore, fa riscontro la vitalità della mente infantile, dove la solitudine e il dolore si rifiutano di cedere alla rabbia e alla disperazione. Per quanto nella nostra biografia il destino possa apparire determinante, è sempre possibile reperire margini di libertà e di autonomia che ci consentono, almeno in parte, di divenire protagonisti della nostra vita e autori della nostra storia.
Ecco due esempi del percorso, il primo quasi agli inizi, il secondo dopo la prima infanzia L’esistenza indistinta Alla bambina, della primissima infanzia rimangono solo frammenti, tessere scomposte ove coesistono immagini non ancora assemblate in un puzzle significativo: le zanzare, il pagliaio, la cagna Lila, il frastuono della mietitrebbia, i piedini rossi per aver pigiato l’uva nel tino, il gusto del mosto appena vendemmiato.
Degli adulti che le stanno accanto ricorda solo particolari: il profumo d’inchiostro del grembiule della nonna Mabilia che, ormai cieca, veste di nero per un lutto che nessuno ricorda; il pollice dello zio Teobaldo con una ammaccatura nera sotto l’unghia; il braccio dello zio Chechin che pialla assi di legno spargendo nell’aria trucioli biondi; i piedi nudi di sua moglie, la zia Teresina, che un giorno, per andare a un funerale, s’infila con fatica grandi scarpe di vernice nera. E, suadente, la dolce cadenza del dialetto mantovano…
In quell’abitazione, che ha visto il passaggio di tante generazioni, la piccola troverà un lettino, una poltroncina, un piattino, un vasino… ma niente mamma. Eppure non si sente sola perché soltanto l’attesa disattesa fa percepire l’assenza e lei non aspetta nessuno. Non vi sono vicini di casa o conoscenti che le prospettino un’esistenza diversa, non frequenta coetanei e il suo piccolo mondo, fatto di adulti premurosi, di gesti consueti e di ritmi prevedibili, basta a contenerla e a rassicurarla. Solo quando una persona dovrebbe esserci e non c’è, come nell’appello scolastico, si può rispondere: “assente”.
Certo, della madre, manca lo sguardo che conferma, la voce che dà parola, l’abbraccio che consola, ma nell’accoglienza mite di quella strana famiglia non ne sente la carenza. Il sé riflessivo non è ancora sbocciato e, come scrive Peter Handke: “il mio passato: quando è stato bello, rammento la situazione; quando è stato brutto, rammento me stesso”. L’inquieta scoperta del corpo La bambina non è mai uscita, se non accompagnata, dal cancello di casa. L’aia è il suo regno. Mille volte l’ha percorsa pedalando sul triciclo rosso, regalatole dal nonno paterno nel loro unico incontro avvenuto a Mantova. Ma oggi sta attraversando con circospezione la strada che la separa dal cortile di fronte. L’attendono tre bambine più grandi, capeggiate da Clara che, prendendola per mano, l’accompagna sotto la vite che scende dal tetto. Non le par vero d’aver tra le mani la nipote della maestra, la zia più giovane. Eccitate la strattonano, le tirano i ricci, le fanno solletico e, ridendo, le sollevano rapide la vestina per vedere com’è fatta sotto, quella bambola strana.
Dapprima incredule poi sfrontate, palpandole il petto secco si mettono a cantilenare: “Non ha le ciucce, non ha le ciucce”, indicando i buchetti che stanno al posto dei capezzoli ritratti. La bambina non comprende che cosa stia succedendo ma si vergogna del suo corpo nudo, esposto al ludibrio e alla derisione. Più tardi, mentre rientra nel cortile di casa, comprende che là, sotto la pergola, è accaduto qualcosa di cui non si può parlare. Accanto alle grandi violenze sessuali, perpetrate per lo più dagli adulti, vi sono piccole, segrete violenze attuate tra bambini e per questo confuse con i giochi e gli scherzi. Sembrano cose da niente ma il loro effetto può essere altrettanto grave. Anche perché, come accade alla bambina, non è chiaro chi siano la vittima e il colpevole e di quale imputazione si tratti. Mentre rincasa, si sente in colpa per aver trasgredito al divieto di non uscire mai sulla strada e, in quel momento, la paura più grande è di essere scoperta e sgridata. Non riesce a comprende che cosa le sia accaduto: il rapido susseguirsi di emozioni contrastanti lascia alle sue spalle un groviglio di percezioni inestricabili che solo un dialogo attento e partecipe potrebbe riordinare. Ma non accadrà perché il pensiero non sa o evita di dare parole a quel ricordo bruciante. Soltanto con la pubertà il seno troverà il “linguaggio d’organo” per esprimere quell’esperienza traumatica, sentendosi, come i piedi della Sirenetta nella fiaba di Andersen, trafitto da mille sottilissimi aghi...
Esistere per qualcuno
Man mano il raggio d’esperienza si estende oltre l’aia e le risaie retrostanti, la bambina incomincia a conoscere quanto accade in paese: avvenimenti che, per quanto attesi, risultano eccezionali rispetto al piatto, monotono susseguirsi dei giorni. L’arrivo delle mondine dalle campagne emiliane reca con sé una ventata di entusiasmo e di scanzonata allegria; la fiera del paese introduce suoni e colori che squarciano il grigiore della Bassa padana; la vendemmia accende di rosso l’autunno, le veglie serali nella stalla, ove ci si raduna per scartocciare le pannocchie di granoturco, invitano ragazzi e ragazze a intrecciare divertite schermaglie d’amore. Il vecchio e la bambina vi partecipano insieme: appartati, si tengono per mano e scambiano poche parole, quelle necessarie.
Il loro rapporto non è da padre e figlia, né da maestro e allieva. Lo zio, che non è neppure tale, non l’accudisce e non la educa, semplicemente, discretamente, l’accompagna. Eppure quegli occhi dall’iride azzurra, che spuntano tra le rughe del volto cotto dal sole, l’autorizzano a crescere e, dopo essersi collocata fuori di sé, nel mondo esterno, ora la bambina, può procedere a mettere il mondo dentro di sé, pensarlo, farlo proprio, amarlo. Oltre al sentire, nel senso di recepire il proprio esistere, la bambina si arricchisce progressivamente di esperienze più complesse che, trascritte in parole, resistono all’usura del tempo... L’archivio della memoria si apre ora a contenere ricordi articolati e complessi, sempre più svincolati dall’egocentrismo infantile. Il progresso è favorito, non solo dalla rassicurante presenza dei grandi che stanno sullo sfondo, ma dalla prossimità dello zio che, prendendola per mano, annoda quel legame di fiducia che consente ai bambini di procedere in avanti, lasciando il vecchio per il nuovo, il certo per l’incerto. Nessuno basta a se stesso.
Si esiste sempre per qualcuno con cui s’intreccia un dialogo che anima il pensiero. Anche quando quel “qualcuno” non ci sarà più.
Silvia Vegetti Finzi
Siamo davvero molto grati all’Autrice per questo suo “dono”, che raccomandiamo in modo particolare ai nostri lettori: un aiuto a riallacciarsi con la propria infanzia e a placare l’eccesso di ansia nei rapporti con i figli che si avverte un po’ ovunque e che spesso diventa un pericoloso controllo, quasi a compenso di rapporti distratti o frettolosi. Proteggiamoli ma al tempo stesso fidiamoci delle loro inaspettate, meravigliose risorse personali.
La Redazione
E’ innanzitutto ai genitori – scrive l’Autrice nella parte introduttiva – che questo libro si rivolge nel tentativo di affinare una sensibilità appannata dalla paura del presente e dall’ansia del futuro.
Molte, troppe preoccupazioni li inducono a proteggere, incentivare e promuovere i figli sino a manipolarli e, talora sostituirli. Giustamente Maria Montessori fa dire al bambino “ Aiutami a fare da solo”.
Nei giovani genitori, che spesso incontrano per la prima volta un neonato quando prendono tra le braccia il proprio, appare indebolita la predisposizione a cogliere le sue sensazioni, a sintonizzarsi con i suoi stati d’animo, a decifrarne i pensieri impliciti.
Possono però recuperare questa facoltà riattivando i loro residui d’infanzia. Il bambino che permane in noi ci aiuta a comprendere quelli che ci stanno accanto e a raggiungerli là dove si trovano: nei meandri della fantasia, nell’intermittenza delle emozioni. Ed è proprio verso quell’“altrove” intimo e segreto che conduce il filo rosso dei vissuti della protagonista, una bambina che ha ricavato, dal trauma dell’abbandono, uno sguardo prospettico sulla realtà e riflessivo su di sé. Si tratta certo di una vicenda personale ma, in quanto tutta la vita si configura come un seguito di abbandoni, è possibile riconoscere, nei suoi sentimenti e nelle sue reazioni, quelle di tutti.
Il libro raccoglie frammenti di memorie d’infanzia di una “bambina senza stella” nel senso che non è stata marchiata con la stella giudaica come è accaduto in altri Paesi, ma anche nel senso che, nascendo in corrispondenza all’applicazione delle leggi razziali ed essendo di padre ebreo, è stata abbandonata dapprima a una balia e poi accolta da lontani parenti del padre che vivevano in una paesino del mantovano, Villimpenta.
Nel 1943, quando la madre, mai conosciuta, ritorna dall’Africa Orientale dove la famiglia in fuga si era trasferita, la bambina viene bruscamente portata a vivere in città, nella casa di altri zii. Si passa così da una infanzia dolcissima (Il senso di esserci) al trauma della separazione (La vita interrotta) e alla elaborazione del lutto (il rimpianto).
Ciascun frammento di memoria è seguito da un commento esplicativo che orienta il lettore verso un sguardo più attento circa le emozioni che la bambina prova e la loro evoluzione, mettendo in evidenza le misteriose risorse ogni individuo possiede. Contrariamente a molti saggi di psicologia, che descrivono un’infanzia generica e astratta, oppure fanno riferimento a casi patologici, i pensieri e i sentimenti della protagonista si ritrovano nell’esistenza di tutti.
A uno sfondo epocale tragico – la seconda guerra mondiale – e a una situazione familiare tormentata, contrassegnata dalla lontananza, dall’indifferenza e dal disamore, fa riscontro la vitalità della mente infantile, dove la solitudine e il dolore si rifiutano di cedere alla rabbia e alla disperazione. Per quanto nella nostra biografia il destino possa apparire determinante, è sempre possibile reperire margini di libertà e di autonomia che ci consentono, almeno in parte, di divenire protagonisti della nostra vita e autori della nostra storia.
Ecco due esempi del percorso, il primo quasi agli inizi, il secondo dopo la prima infanzia L’esistenza indistinta Alla bambina, della primissima infanzia rimangono solo frammenti, tessere scomposte ove coesistono immagini non ancora assemblate in un puzzle significativo: le zanzare, il pagliaio, la cagna Lila, il frastuono della mietitrebbia, i piedini rossi per aver pigiato l’uva nel tino, il gusto del mosto appena vendemmiato.
Degli adulti che le stanno accanto ricorda solo particolari: il profumo d’inchiostro del grembiule della nonna Mabilia che, ormai cieca, veste di nero per un lutto che nessuno ricorda; il pollice dello zio Teobaldo con una ammaccatura nera sotto l’unghia; il braccio dello zio Chechin che pialla assi di legno spargendo nell’aria trucioli biondi; i piedi nudi di sua moglie, la zia Teresina, che un giorno, per andare a un funerale, s’infila con fatica grandi scarpe di vernice nera. E, suadente, la dolce cadenza del dialetto mantovano…
In quell’abitazione, che ha visto il passaggio di tante generazioni, la piccola troverà un lettino, una poltroncina, un piattino, un vasino… ma niente mamma. Eppure non si sente sola perché soltanto l’attesa disattesa fa percepire l’assenza e lei non aspetta nessuno. Non vi sono vicini di casa o conoscenti che le prospettino un’esistenza diversa, non frequenta coetanei e il suo piccolo mondo, fatto di adulti premurosi, di gesti consueti e di ritmi prevedibili, basta a contenerla e a rassicurarla. Solo quando una persona dovrebbe esserci e non c’è, come nell’appello scolastico, si può rispondere: “assente”.
Certo, della madre, manca lo sguardo che conferma, la voce che dà parola, l’abbraccio che consola, ma nell’accoglienza mite di quella strana famiglia non ne sente la carenza. Il sé riflessivo non è ancora sbocciato e, come scrive Peter Handke: “il mio passato: quando è stato bello, rammento la situazione; quando è stato brutto, rammento me stesso”. L’inquieta scoperta del corpo La bambina non è mai uscita, se non accompagnata, dal cancello di casa. L’aia è il suo regno. Mille volte l’ha percorsa pedalando sul triciclo rosso, regalatole dal nonno paterno nel loro unico incontro avvenuto a Mantova. Ma oggi sta attraversando con circospezione la strada che la separa dal cortile di fronte. L’attendono tre bambine più grandi, capeggiate da Clara che, prendendola per mano, l’accompagna sotto la vite che scende dal tetto. Non le par vero d’aver tra le mani la nipote della maestra, la zia più giovane. Eccitate la strattonano, le tirano i ricci, le fanno solletico e, ridendo, le sollevano rapide la vestina per vedere com’è fatta sotto, quella bambola strana.
Dapprima incredule poi sfrontate, palpandole il petto secco si mettono a cantilenare: “Non ha le ciucce, non ha le ciucce”, indicando i buchetti che stanno al posto dei capezzoli ritratti. La bambina non comprende che cosa stia succedendo ma si vergogna del suo corpo nudo, esposto al ludibrio e alla derisione. Più tardi, mentre rientra nel cortile di casa, comprende che là, sotto la pergola, è accaduto qualcosa di cui non si può parlare. Accanto alle grandi violenze sessuali, perpetrate per lo più dagli adulti, vi sono piccole, segrete violenze attuate tra bambini e per questo confuse con i giochi e gli scherzi. Sembrano cose da niente ma il loro effetto può essere altrettanto grave. Anche perché, come accade alla bambina, non è chiaro chi siano la vittima e il colpevole e di quale imputazione si tratti. Mentre rincasa, si sente in colpa per aver trasgredito al divieto di non uscire mai sulla strada e, in quel momento, la paura più grande è di essere scoperta e sgridata. Non riesce a comprende che cosa le sia accaduto: il rapido susseguirsi di emozioni contrastanti lascia alle sue spalle un groviglio di percezioni inestricabili che solo un dialogo attento e partecipe potrebbe riordinare. Ma non accadrà perché il pensiero non sa o evita di dare parole a quel ricordo bruciante. Soltanto con la pubertà il seno troverà il “linguaggio d’organo” per esprimere quell’esperienza traumatica, sentendosi, come i piedi della Sirenetta nella fiaba di Andersen, trafitto da mille sottilissimi aghi...
Esistere per qualcuno
Man mano il raggio d’esperienza si estende oltre l’aia e le risaie retrostanti, la bambina incomincia a conoscere quanto accade in paese: avvenimenti che, per quanto attesi, risultano eccezionali rispetto al piatto, monotono susseguirsi dei giorni. L’arrivo delle mondine dalle campagne emiliane reca con sé una ventata di entusiasmo e di scanzonata allegria; la fiera del paese introduce suoni e colori che squarciano il grigiore della Bassa padana; la vendemmia accende di rosso l’autunno, le veglie serali nella stalla, ove ci si raduna per scartocciare le pannocchie di granoturco, invitano ragazzi e ragazze a intrecciare divertite schermaglie d’amore. Il vecchio e la bambina vi partecipano insieme: appartati, si tengono per mano e scambiano poche parole, quelle necessarie.
Il loro rapporto non è da padre e figlia, né da maestro e allieva. Lo zio, che non è neppure tale, non l’accudisce e non la educa, semplicemente, discretamente, l’accompagna. Eppure quegli occhi dall’iride azzurra, che spuntano tra le rughe del volto cotto dal sole, l’autorizzano a crescere e, dopo essersi collocata fuori di sé, nel mondo esterno, ora la bambina, può procedere a mettere il mondo dentro di sé, pensarlo, farlo proprio, amarlo. Oltre al sentire, nel senso di recepire il proprio esistere, la bambina si arricchisce progressivamente di esperienze più complesse che, trascritte in parole, resistono all’usura del tempo... L’archivio della memoria si apre ora a contenere ricordi articolati e complessi, sempre più svincolati dall’egocentrismo infantile. Il progresso è favorito, non solo dalla rassicurante presenza dei grandi che stanno sullo sfondo, ma dalla prossimità dello zio che, prendendola per mano, annoda quel legame di fiducia che consente ai bambini di procedere in avanti, lasciando il vecchio per il nuovo, il certo per l’incerto. Nessuno basta a se stesso.
Si esiste sempre per qualcuno con cui s’intreccia un dialogo che anima il pensiero. Anche quando quel “qualcuno” non ci sarà più.
Silvia Vegetti Finzi
Siamo davvero molto grati all’Autrice per questo suo “dono”, che raccomandiamo in modo particolare ai nostri lettori: un aiuto a riallacciarsi con la propria infanzia e a placare l’eccesso di ansia nei rapporti con i figli che si avverte un po’ ovunque e che spesso diventa un pericoloso controllo, quasi a compenso di rapporti distratti o frettolosi. Proteggiamoli ma al tempo stesso fidiamoci delle loro inaspettate, meravigliose risorse personali.
La Redazione
COSTRUIAMO UN MEMORY PER I BAMBINI
Il memory è un gioco che favorisce l’attenzione e il riconoscimento di immagini; può essere giocato da bambini dai due anni in su, ma anche da bambini e adulti (e non è detto che vincano gli adulti!) in gruppetti di 3-5 giocatori.
Come preparare le tessere:
Servirà un numero pari (dal 30 in su) di rettangoli di cartone piuttosto robusto o meglio ancora di compensato sottile: una buona misura adatta a piccole mani, può essere 6 x 10 cm. Adatte anche tessere di forma quadrata.
Se useremo tessere di legno, vale la pena di trattarle con la vernice turapori e poi scartavetrarle, soprattutto sui bordi, in modo da renderle lisce e gradevoli al tatto.
Pensiamo ora alle figure: dobbiamo trovare due serie di immagini identiche da incollare su un lato delle tessere che avremo preparato. Ci sarà d’aiuto una fotocopiatrice. Le immagini, nella stessa serie, possono essere le più varie, oppure potremo decidere di fare un memory a tema: animali, mestieri, mezzi di trasporto, particolari significativi di opere d’arte, frutta, ecc.
Se non disponete di una fotocopiatrice, potrete utilizzare, ad esempio, cataloghi da supermercato in doppia serie e identici. Per i piccoli si sceglieranno immagini molto nitide e non simili tra loro. Per i grandi si potranno invece scegliere altri soggetti più somiglianti per rendere più interessante il gioco.
Ritagliate le immagini e incollatele con colla di buona tenuta (es. vinavil) sulle tessere. Quando saranno incollate (conviene metterle sotto un peso per un giorno, sovrapponendo ad esse un piano di compensato e una pila di grossi volumi come enciclopedie o vocabolari) e bene asciutte, vale la pena di finirle con una passata di colla trasparente ad acqua, che ne allungherà la vita. [ Le tessere potrebbero essere preparate anche da bambini più grandi, in modo che possano costruirsi il loro memory con immagini di loro interesse].
In che consiste il gioco?
Si mescolano le due serie di immagini e si dispongono sul tavolo con l’immagine sotto: ogni giocatore, al suo turno, girerà due immagini: se ne avrà trovate due uguali le terrà per sé e potrà girarne altre coppie, finché non sbaglia. A questo punto dovrà rimettere sul tavolo la coppia sbagliata esattamente nella stessa posizione e passare la mano al giocatore successivo. Vince chi, alla fine del gioco, ha più tessere.
Se si gioca con bambini piccoli è meglio, inizialmente, partire con un numero limitato di tessere. In ogni caso con loro non va in alcun modo esaltata in modo eccessivo la vittoria di qualcuno a scapito di altri che potrebbero restarci assai male. Diverso è l’uso del memory verso i cinque anni e oltre.
Marina Bianco
Come preparare le tessere:
Servirà un numero pari (dal 30 in su) di rettangoli di cartone piuttosto robusto o meglio ancora di compensato sottile: una buona misura adatta a piccole mani, può essere 6 x 10 cm. Adatte anche tessere di forma quadrata.
Se useremo tessere di legno, vale la pena di trattarle con la vernice turapori e poi scartavetrarle, soprattutto sui bordi, in modo da renderle lisce e gradevoli al tatto.
Pensiamo ora alle figure: dobbiamo trovare due serie di immagini identiche da incollare su un lato delle tessere che avremo preparato. Ci sarà d’aiuto una fotocopiatrice. Le immagini, nella stessa serie, possono essere le più varie, oppure potremo decidere di fare un memory a tema: animali, mestieri, mezzi di trasporto, particolari significativi di opere d’arte, frutta, ecc.
Se non disponete di una fotocopiatrice, potrete utilizzare, ad esempio, cataloghi da supermercato in doppia serie e identici. Per i piccoli si sceglieranno immagini molto nitide e non simili tra loro. Per i grandi si potranno invece scegliere altri soggetti più somiglianti per rendere più interessante il gioco.
Ritagliate le immagini e incollatele con colla di buona tenuta (es. vinavil) sulle tessere. Quando saranno incollate (conviene metterle sotto un peso per un giorno, sovrapponendo ad esse un piano di compensato e una pila di grossi volumi come enciclopedie o vocabolari) e bene asciutte, vale la pena di finirle con una passata di colla trasparente ad acqua, che ne allungherà la vita. [ Le tessere potrebbero essere preparate anche da bambini più grandi, in modo che possano costruirsi il loro memory con immagini di loro interesse].
In che consiste il gioco?
Si mescolano le due serie di immagini e si dispongono sul tavolo con l’immagine sotto: ogni giocatore, al suo turno, girerà due immagini: se ne avrà trovate due uguali le terrà per sé e potrà girarne altre coppie, finché non sbaglia. A questo punto dovrà rimettere sul tavolo la coppia sbagliata esattamente nella stessa posizione e passare la mano al giocatore successivo. Vince chi, alla fine del gioco, ha più tessere.
Se si gioca con bambini piccoli è meglio, inizialmente, partire con un numero limitato di tessere. In ogni caso con loro non va in alcun modo esaltata in modo eccessivo la vittoria di qualcuno a scapito di altri che potrebbero restarci assai male. Diverso è l’uso del memory verso i cinque anni e oltre.
Marina Bianco
famiglie soffocanti
Al giorno d’oggi padri e madri coltivano l’arte del paradosso: da un lato spingono a più non posso i loro piccoli figli a raggiungere nuove abilità in anticipo, dall’altro si angosciano alla sola idea di lasciarli per poco, di affidarli ad altri. A scuola diventano sempre più intrusivi e indisciplinati nei confronti dei maestri, a casa discutono con i figli di tutto e su tutto, come se questi potessero essere interlocutori consapevoli fin dai primi anni. A fronte di una società che non tollera lentezze, errori, incertezze, i genitori finiscono per soffocare i figli divenendo iperprotettivi, controllori ansiosi di ogni loro minuto di vita e quindi comunicando loro disistima, incertezza.
Due esempi:
1.coppia di genitori colti, entrambi docenti universitari, bambina di 6 costretta a entrare in una seconda dopo un esame che dà alla famiglia il diritto di far “saltare” la prima classe.
Risultato : la bambina che pure sa scrivere e leggere, continua a comportarsi nel disegno - ma anche in altre manifestazioni - come una piccola di quattro o cinque anni. Si adegua alle richieste, ma manifesta per altre strade la sua sofferenza! I genitori purtroppo sono totalmente sordi : lei deve!
2.Famiglia operaia: padre molto ambizioso, madre casalinga che rinuncia ad avere una propria opinione sul figlio per “amor di pace”. Lui iscrive il proprio figlio alla primaria a cinque anni e mezzo e pretende da subito ottimi risultati, scrivere bene e senza errori, lettura ad alta voce. (Forse è quello che esigevano da lui quando era piccolo).
Risultato: il bambino, ancora in seconda elementare, non riesce a scrivere correttamente, confonde alcune difficoltà ortografiche , scrive i numeri a rovescio, legge con molte incertezze. A casa è di continuo sgridato per il suo “scarso rendimento”…
Per entrambi la scuola è diventata noia, tortura, insicurezza, penoso confronto con i compagni.
Oggi molti genitori sono convinti che a tale età il figlio debba saper fare questo e quello e gli tracciano in anticipo una sorta di percorso. Dimenticano però che quasi mai un bambino segue la via tracciata dai familiari: le sue potenzialità di vita , per fortuna, spesso sono più forti di tutto, ma il bambino la paga lo stesso, divenendo arrogante, aggressivo, mutevole d’umore , disinteressato, in una parola: infelice.
Due esempi:
1.coppia di genitori colti, entrambi docenti universitari, bambina di 6 costretta a entrare in una seconda dopo un esame che dà alla famiglia il diritto di far “saltare” la prima classe.
Risultato : la bambina che pure sa scrivere e leggere, continua a comportarsi nel disegno - ma anche in altre manifestazioni - come una piccola di quattro o cinque anni. Si adegua alle richieste, ma manifesta per altre strade la sua sofferenza! I genitori purtroppo sono totalmente sordi : lei deve!
2.Famiglia operaia: padre molto ambizioso, madre casalinga che rinuncia ad avere una propria opinione sul figlio per “amor di pace”. Lui iscrive il proprio figlio alla primaria a cinque anni e mezzo e pretende da subito ottimi risultati, scrivere bene e senza errori, lettura ad alta voce. (Forse è quello che esigevano da lui quando era piccolo).
Risultato: il bambino, ancora in seconda elementare, non riesce a scrivere correttamente, confonde alcune difficoltà ortografiche , scrive i numeri a rovescio, legge con molte incertezze. A casa è di continuo sgridato per il suo “scarso rendimento”…
Per entrambi la scuola è diventata noia, tortura, insicurezza, penoso confronto con i compagni.
Oggi molti genitori sono convinti che a tale età il figlio debba saper fare questo e quello e gli tracciano in anticipo una sorta di percorso. Dimenticano però che quasi mai un bambino segue la via tracciata dai familiari: le sue potenzialità di vita , per fortuna, spesso sono più forti di tutto, ma il bambino la paga lo stesso, divenendo arrogante, aggressivo, mutevole d’umore , disinteressato, in una parola: infelice.